Nel marzo del 2015 la nuova MLS riaprirà i battenti non solo con due nuove franchigie (Orlando e NY), una manciata di campioni (Lampard, David Villa) e un nuovo logo molto elegante, ma anche con una stella in meno: Landon Donovan. E quando, a undici minuti dal termine della finale dell’ultima MLS Cup, l’ultima partita di Donovan, Chris Tierney, prodotto del vivaio dei New England Revolution, ha pareggiato una gara fino a quel momento saldamente nelle mani dei Los Angeles Galaxy, gli sceneggiatori si sono guardati con sospetto: chi stava sabotando l’happy ending?
Donovan è l’uomo che è riuscito a fare per il calcio USA negli anni zero, quello che Michael Jordan, con le dovute proporzioni, ha fatto per il basket negli anni Novanta: fomentare la passione fino a cementificarla nel mito. Se oggi la MLS può permettersi di dire: «Esistiamo da vent’anni, non abbiamo bisogno di farti vedere un pallone e uno scarpino per farti capire che parliamo di soccer», buona parte del merito è di Landon Donovan, il miglior marcatore e assistman assoluto non solo della Lega, ma anche dello USMNT, ovvero la Nazionale di calcio maschile.
Per questo, l’ultima stagione non ammetteva finali alternativi: Donovan si era preparato un’uscita di scena, a suo modo, hollywoodiana. I Los Angeles Galaxy si sarebbero giocati la possibilità di laurearsi campioni degli States per la quinta volta, più di ogni altra squadra, sul proprio campo: lo StubHub Centre di Carson sul quale nessuno riusciva a batterli dal Marzo scorso. Figuriamoci nella finale, e nell’atto finale della carriera di Donovan.
Così è finita sotto una pioggia di lustrini dorati, con Robbie Keane, il capitano, che ha alzato la coppa e si è voltato a cercare Landon, nascosto tra gli altri compagni quasi a voler cercare un fade out clandestino, e lo ha reclamato sul fronte del palco. Gli sceneggiatori si sciolgono in un sorriso disteso: nessuno può sabotare un happy ending.
Negli ultimi quindici anni Donovan è stato lo specchio del processo di maturazione del calcio yankee, una linea di spartiacque acuta e ripida (come lo slash che divide il nuovo logo in due quadranti); ha saputo trasformare il soccer da elettromagnete per eurofili a sport tipicamente nordamericano, al pari (non del tutto, ma quasi, in prospettiva) del baseball o del basket. Sarebbe bello se un giorno, nel quadrante immacolato del nuovo logo, la MLS introducesse una silhouette – come Jerry West per l’NBA o Harmon Killebrew per la MLB – di Landon Donovan.
Donovan è il simbolo di un passaggio epocale per il calcio in America e se adesso è diventato uno sport di un certo rilievo, addirittura “cool”, è anche un po’ merito di LD. Come testimonia la foto con Obama e Beckham: Landon Donovan non sfigura. Forse è appena troppo basso.
In ogni caso, senza di lui, la combinazione “Soccer” + “Presidente degli States” avrebbe avuto lo stesso effetto di George W. Bush Sr. che calcia goffamente un pallone sul prato poco curato della villa di un amico in Texas vestito da maratoneta col k-way:
L’adolescenza ai tempi del pionierismo.
A qualche miglio più a sud dall’inizio del tratto californiano della Route 66 si trova la cittadina di Redlands, “Capitale Mondiale delle Arance Navel”, nebbiosa e operaia manciata di case della suburbia losangelina in cui Landon è cresciuto frequentando il college da studente modello, prendendo lezioni di violino, distribuendo giornali come molti ragazzini dell’America bene. I genitori avevano divorziato quando lui aveva solo due anni: il padre Tim, giocatore dilettante di hockey su ghiaccio, si era trasferito in Nebraska dove si era fatto una nuova famiglia. Landon è cresciuto con la madre Donna e i quattro fratelli: Sheri e Tim, già più grandi, Josh e la sorella gemella Tristan, nata un minuto esatto prima di lui.
Negli anni in cui Landon è un ragazzino, negli States, il calcio è poco più che una terapia, un rimedio all’iperattività in età scolare: permette ai piccoli di bruciare energie, li stanca. Senza dover pensare per forza al professionismo. Per questo le mamme lo scelgono per i loro figli: gite fuori porta con il van, sedie pieghevoli, succo d’arancia in cartone, molta spensieratezza e novanta minuti di corse confuse che sfiancano i bambini. Per questo Donna lo sceglie per il figlio. Josh gli insegna i fondamentali: come si stoppa il pallone, come si tira. Allo svezzamento provvedono i Cal Heat di Rancho Cucamonga, la sua prima squadra.
Quando guidi verso L.A., attraversando San Bernardino, Pomona, Pasadena hai come l’impressione di essere già, per una qualche ragione, in una propaggine d’America Latina: i gommisti, i colorifici, i fruttivendoli, tutte le insegne sui muri, dipinte a vernice, sono in spagnolo. Nei Cal Heat Landon divide il campo con ragazzini messicani, costarricensi, honduregni: «Ho dovuto imparare lo spagnolo se volevo che mi passassero la palla».
Secondo Richard Motzkin, il primo agente di Donovan, la caratteristica principale del Landon ragazzino era quella di suscitare una specie di Landonmania ovunque andasse. Tutti i coetanei volevano essere Landon Donovan. Le ragazze lo amavano. I ragazzi più grandi lo ammiravano e le mamme lo adoravano. A quindici anni Landon è stato accettato nell’Olympic Development Program per il calcio negli States. «Anche se conoscevo a malapena i nomi di 5 squadre in tutto il mondo, mi piaceva molto giocare a calcio», dice a un certo punto di “The Finish Line”, il documentario che gli ha dedicato Grantland. E poi è uno dei primi storici allievi della IMG Bradenton Academy, in Florida.
La Bradenton non è che la Bollettieri Academy raccontata da André Agassi in “Open”, solo che per i giovani calciatori, a differenza dei tennisti, il clima è molto più disteso, non c’è competitività ma spirito di squadra e molta goliardia, anche quando per rilassarsi si gioca a golf. Landon, un giorno, per rincorrere una pallina colpita da un compagno si avventura in uno stagno, e quasi finisce per farsi azzannare da un alligatore (è una scena che Filip Bondy ha raccontato nel suo libro “Chasing the game”). Landon vuole diventare un calciatore di successo, ovviamente in Europa. Vuole guadagnarsi il rispetto che all’epoca non era concesso ai calciatori yankee.
Mi sono imbattuto in un questionario compilato durante un ritiro con le nazionali giovanili – deve risalire a qualche tempo prima del Mondiale U-17 disputato nel 1999 in Nuova Zelanda – che secondo me tra le righe racconta molto del Donovan calciatore, della sua fama di ambizione, dei suoi modelli di riferimento. Il suo calciatore preferito, dice, è Roberto Baggio. Mi sono immaginato un piccolo Donovan durante il Mondiale del ’94, folgorato dalle giocate del fantasista italiano, piangere per il rigore sbagliato nel catino rovente del Rose Bowl di Pasadena. E ancora nel questionario: «Cosa sai del Campionato del Mondo giovanile?». «Che lo vinceremo».
Quell’U-17 riuscirà in una serie di imprese, come battere una squadra di “grandi” (i Tampa Bay Mutiny, che militavano nella MLS) o i pari età argentini, vieppiù in Argentina. Ai Mondiali arriveranno quarti. In quel periodo Landon portava i capelli biondi ossigenati, come il primo Billie Joe dei Green Day o Eminem ai tempi di Slim Shady, e già da sei mesi viveva e faceva il calciatore in Germania.
Di quella U-17 statunitense facevano parte anche Oguchi Onyewu, DaMarcus Beasley e Kyle Beckerman, nella foto con Landon. Poi c’erano Danny Bolin, che è diventato elicotterista nella Air Force; Filippo Chillemi, che ha giocato in Italia con l’Olbia e il Mazzara; e infine Jordan Cila, oggi analista contabile alla Goldman&Sachs.
In Germania, a diciassette anni.
Forse è solo una storiella, però funziona bene in ciò per cui è stata concepita, cioè illustrare il livello di ingenuità di Donovan non in quanto Donovan, ma in quanto Diciassettenne Calciatore Negli States Di Fine Ventesimo Secolo: quando l’osservatore del Bayer Leverkusen lo ha contattato, sembra che LD abbia risposto: «Bayer chi? Leverkusen? Non so cosa sia».
Ambientarsi in Germania è complicato: Landon soffre la lontananza dalla famiglia, dai suoi luoghi. La madre, per farlo sentire a casa, gli spedisce pacchi di Cinnamon Toast Crunch e bottiglie di Ranch Dressing per le insalate. Il padre è felice per il figlio, perché ha avuto «la chance di fare esattamente quello che io speravo di fare». Il sentimento della madre è ambiguo e ondivago, come tutti i sentimenti delle madri. «Mi dispiace un po’ che ora consideri il calcio un business. Ho paura che un giorno possa dirmi “Mamma, perché mi hai lasciato andare?”». Ma anche: «Ho pianto per due giorni [quando il figlio ha deciso di partire, NdR]. Ma non voglio che tra qualche anno possa dirmi “Hai distrutto le mie possibilità”».
Landon gioca con la squadra riserve del Bayer: «Devo dimostrare qualcosa ogni giorno. In allenamento, sul bus, in aereo». Quando contro l’Essen segna una tripletta c’è chi lo paragona a Ulf Kirsten. «Raramente offriamo un contratto così oneroso [400mila dollari l’anno, NdR] a un calciatore così giovane; ma in ventun anni che lavoro con i ragazzi raramente ne ho visto uno con un potenziale del genere», dice Michael Reschke, direttore del settore giovanile delle “Aspirine” all’epoca, a Marc Spiegler di Sports Illustrated.
«Chiamavo la palla, i ragazzi mi vedevano ma di proposito non me la passavano». Le immagini sono di “The Finish Line”. Nella lunga intervista concessa a Spiegler dice invece: «Una parte di me pensava: te la stanno rendendo difficile perché sei americano. Non riuscivo a capire che forse mi sarei solo dovuto impegnare di più».
Il primo ritorno a casa: San José Earthquakes.
Nel 2001 il Bayer vuole provare a vedere se c’è una qualche maniera di salvare il talento del giovane Landon dalle ganasce della nostalgia. L’investimento monetario deve per forza essere controbilanciato da un investimento umano: per questo viene ceduto in prestito per una stagione ai San José Earthquakes, California, MLS.
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Fabrizio Gabrielli scrive e traduce dei libri. Ha tradotto Lugones e collaborato con i blog di Finzioni, Edizioni Sur e Fútbologia occupandosi di Sudamerica, calcio e letteratura, anche in combine. Il suo ultimo libro si intitola "Sforbiciate. Storie di pallone ma anche no" (Piano B, 2012).