È l’una di notte (ora italiana). Gli Stati Uniti escono da questi Mondiali. C’è pochissimo tempo per scrivere qualcosa. Inutile provare a scendere negli spogliatoi. Lo sguardo scorre d’istinto sui ranghi dei loro tifosi. Le ragazze in lacrime con i bikini a stelle e strisce, quelli con la maschera di Topolino che non ride più e quelli con il cappello storto del vecchio zio Sam, che ha preso un paio di brutte sberle. Le facce dei tifosi quando perdono sono sempre uguali: ma queste, forse, queste facce di tifosi yankee fanno più tenerezza del solito perché capisci che per la prima volta, per la prima davvero, hanno compreso quanto crudele e spietato può essere il calcio. È uno sport che non sapevano esistesse, ci sono finiti dentro con entusiasmo.
Quando, venti anni fa, i Mondiali si tennero negli States, la gente andava allo stadio senza conoscere la differenza tra un calcio d’angolo e un calcio di rigore. In tribuna con le maglie di Michael Jordan e i cappellini dei New York Yankees. Adesso sono qui tutti orgogliosi con le magliette di Bradley e Dempsey, che chiamano sotto le tribune, e si sono arrabbiati perché l’ultimo tempo supplementare poteva avere
qualche minuto di recupero più: così contestano l’arbitro, lo fischiano, ma per buona parte della partita hanno intuito che il loro portiere, Tim Howard, si è sentito come il generale Custer a Little Big Horn. Oltre
all’entusiasmo, cominciano a metterci un po’ di competenza.
I tesserati sono 4 milioni e 100: la seconda forza al mondo dopo la Germania (6,5). Ormai ci sono rettangoli con le porte nel Queens e nell’ultimo paesino del Texas. Due anni fa, un sondaggio del sociologo Rich Luker stabilì che, negli Stati Uniti, nella fascia d’età tra i 12 e i 24 anni, il soccer è lo sport più popolare dopo il football (americano). Usa-Portogallo, l’altro giorno, alla tv, meglio di una finale Nba:
vista da 24 ,7 milioni di americani.
Tra loro, anche il Presidente Barack Obama, padre di due ragazze che il soccer lo giocano al liceo, rapido a infilarsi dentro al sogno collettivo. Si fa riprendere mentre guarda Usa-Germania a bordo dell'Air Force One, in volo verso il Minnesota. Poi, finita la partita, detta un comunicato che, ovviamente, fa il giro del
pianeta: «Questo Mondiale possiamo vincerlo noi». Poi magari gli tocca incassare il tweet del collega belga Elio Di Rupo, che all’amico Barack riserva un «I told you so», te l’avevo detto, che riporta sulla terra Obama e il suo Air Force One. Magari quella del presidente statunitense sarà stata anche un botta d’entusiasmo. Ma anche la consapevolezza che questo nuovo sport è l’unico ad essere giocato in ogni continente. Ovvio che gli Stati Uniti debbano esserci. E non per partecipare. Però per vincere, nel calcio, i soldi e l’entusiasmo non bastano.
Serve anche esperienza e talento ed è forse questa, stanotte, la più grande lezione per i tifosi americani: il calcio è come il basket, come il baseball, come l’hockey. Sì, serve tempo. Serviranno ancora molti anni per riuscire ad andare avanti in un torneo mondiale. È proprio una notte tenera. Viene da citare Francis Scott Fitzgerald. Finire con una citazione, di solito, è una pessima soluzione. Ma per una volta forse ci sta.
Fonte: Frabrizio Roncone - Corriere della Sera